Mar. 20th, 2012

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Avete presente quella fase dell'etade adolescenziale nella quale, nonostante si sia dei teneri virgulti in fiore, si pensa di sapere tutto della vita? Ecco. Se rimembro quell'epoca, non posso fare a meno di irritarmi ripensando a che razza di piccola pustola arrogante ero. Non che mi atteggiassi a signorinasotuttoio o che fossi una spocchiosa petulante col grembiulino, anzi, ma ero quella tipica ragazzina con la luna storta, che, ommioddioh, nessuno capiva e che dentro di sè aveva un' assoluta, infallibile convinzione e nitida immagine di come le cose del mondo funzionassero e come dovessero per forza funzionare. Poco male, credo, dato che per quella fase ci siamo passati un po' tutti.

Uno dei dogmi dei quali mi ero fatta agguerrita profeta e accanita sostenitrice era quello del TALENTO. Il sacro fuoco del talento del quale solo una minima componente del volgo plebeo era fiera detentrice. Secondo la prima regola di vita della suddetta giovane guida celeste, la popolazione terrestre ( e possibilmente anche quella aliena ) si divideva in due macroinsiemi: quello dei talentuosi, che nascevano con una particolare abilità che il buon Dio aveva voluto loro concedere ( affiancata da una buona dose di lungimiranza e consapevolezza del loro "dono" che gli permetteva di sapere sin dalla nascita cosa avrebbero fatto nella vita ), e quella dei confusi, individui senza una particolare abilità che si dovevano accontentare di fare cose a caso e alla loro portata, anche se lasciarsi morire spiaggiati sulla riva di un fiume in secca, piangendo per la loro inutilità, sarebbe stato per loro più consigliabile. Ovviamente, manco a chiederlo, io ero parte di questo secondo gruppo. Ne ero il patetico presidente.

Non ero un'incapace, ero anzi una dura lavoratrice, ma la mia propensione al multitasking era vissuta come un deficit perchè comportava una naturale mancanza di un talento specifico. Questa cosa mi faceva stare veramente male, perchè mi ero testardamente convinta che gli eletti, i talentuosi, dovessero per forza avere in testa un'idea precisa di come sarebbe stato il loro futuro e la loro professione per la vita.

Parecchi anni dopo e parecchi coetanei iper-talentuosi dopo, visti buttare nel cestino il loro immenso ed ineguagliabile dono per paura o per pigrizia, mi sono finalmente resa conto che la realtà è ben diversa da come me l'ero immaginata. Il talento non rende tutto semplice. Non rende tutto automatico, nè tantomeno, in definitiva, conta così tanto. Se non ti trova pronto a lavorare e a rischiare è come un giglio piantato in pieno deserto. Un piccolo fiore bianco e meraviglioso destinato ad avvizzire perchè non ha trovato terreno fertile su cui crescere. Ho pure capito che essere convinti di non aver nessun talento in particolare è altrettanto sbagliato. L'età, l'esperienza, il provare di qui e di là ti insegnano a guardare con più attenzione dentro di te, ti inducono a scavare nel terriccio del tuo vaso e renderti conto che, appena sotto uno strato di fine terra, la semente del giglio c'era sempre stata. Bastava guardare con un po' più di attenzione.

Se dovesse mai passare di qui un adolescente in piena crisi esistenziale, mi sento quindi di dirgli di restare sempre affamato di esperienze, che gli apriranno gli occhi, e quindi guardare dentro sè stesso. Oltre che a smettere di fare il saccentino arrogante, prima che i suoi genitori decidano definitivamente di darlo in adozione.

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